L’incoerenza delle piattaforme: quando la tutela dei diritti è subordinata al modello di business
Il paradosso dell’incoerenza
Chi opera quotidianamente nel campo della protezione dei contenuti digitali conosce bene questo paradosso: le grandi piattaforme dichiarano impegni solenni sulla tutela dei diritti, pubblicano policy impeccabili, ma nella pratica applicano criteri mutevoli, spesso incoerenti e talvolta economicamente orientati.
È una inconsistency sistemica, emersa ancora una volta nel caso citato da Enzo Mazza (CEO FIMI) sul tema del rapporto tra Meta e gli annunci fraudolenti su Facebook, Instagram e Whatsapp: da un lato strumenti di collaborazione, dall’altro scelte operative che sembrano contraddire le stesse premesse dichiarate.
Non è un caso isolato. È un modello che si ripete, con sfumature diverse, su quasi tutte le principali piattaforme globali.
Gli strumenti di tutela online: un’architettura in continua evoluzione
Negli ultimi anni, il quadro normativo e tecnico per la protezione dei contenuti online si è arricchito di strumenti sempre più sofisticati:
• Notice & takedown e sistemi di segnalazione automatica;
• Trusted Flagger riconosciuti dal Digital Services Act, chiamati a garantire affidabilità e priorità di intervento (FPM è uno dei pochi enti italiani accreditati);
• Procedure amministrative e giudiziali, come i blocchi DNS o i sequestri dei nomi a dominio;
• Sistemi tecnologici di content recognition e monitoring, capaci di individuare copie e stream illeciti con algoritmi sempre più precisi.
Eppure, dietro questa infrastruttura di regole e tecnologie, resta un nodo irrisolto: la coerenza nell’applicazione. Lo stesso contenuto può infatti essere rimosso in pochi minuti su una piattaforma, ignorato per settimane su un’altra. Le stesse violazioni possono generare esiti opposti a seconda della sede, del formato, del soggetto segnalante, del team che prende in carico la segnalazione lato piattaforma o -più spesso - del grado di convenienza economica.
L’asimmetria di potere e la “black box” dell’enforcement
Questa incoerenza non è casuale: nasce da un’asimmetria informativa e di potere strutturale.
Le piattaforme concentrano nelle proprie mani la definizione, l’applicazione e la revisione delle regole.
Chi segnala un abuso - un titolare di diritti, un organismo di tutela, un’autorità - si confronta con processi opachi, automatizzati e scarsamente verificabili. Dietro l’interfaccia di una dashboard o di un modulo di segnalazione, si nasconde una black box decisionale in cui si fondono elementi tecnici, algoritmici e strategici.
L’effetto sistemico è duplice:
1. le regole vengono applicate in modo incoerente e imprevedibile;
2. la fiducia nell’autoregolamentazione viene erosa, aprendo spazi per conflitti e sfiducia tra piattaforme e stakeholder.
Il bilanciamento (instabile) degli interessi in gioco
Il tema è complesso perché tocca interessi legittimi e, in molti casi, diritti fondamentali:
• la libertà di espressione e di accesso ai contenuti;
• il diritto d’impresa e la sostenibilità economica delle piattaforme;
• la tutela della proprietà intellettuale e dei contenuti creativi;
• la protezione dei dati personali e della sicurezza informatica.
Il punto, però, non è scegliere un valore contro un altro, ma riconoscere che la coerenza applicativa è la condizione minima di equilibrio.
Una piattaforma può decidere di privilegiare la libertà di espressione o la rapidità delle rimozioni, ma non può cambiare arbitrariamente criterio a seconda del contesto o dell’interlocutore. Il bilanciamento deve essere chiaro, trasparente e verificabile.
Il Digital Services Act ha cercato di introdurre una cornice di responsabilità graduata, imponendo obblighi di trasparenza e reporting sugli interventi di moderazione, ma la vera sfida resta culturale e organizzativa: come rendere la coerenza un principio operativo, non solo regolamentare.
Enforcement e priorità economiche
Dietro molte incoerenze si cela una questione più profonda: il peso economico della tutela.
Applicare in modo rigoroso le proprie regole di enforcement significa dedicare risorse, limitare certe fonti di traffico, ridurre - almeno temporaneamente - l’engagement e quindi i ricavi.
La tentazione è evidente: mantenere una certa ambiguità operativa che consenta di intervenire quando necessario, ma senza intaccare il flusso principale del business.
È un equilibrio fragile, che trasforma la tutela dei diritti in una variabile negoziabile. Eppure, come mostrano le esperienze più virtuose, l’impegno nella tutela non distrugge valore: lo qualifica.
Una piattaforma che dimostra coerenza e responsabilità diventa più affidabile agli occhi di utenti, inserzionisti e autorità.
Verso una nuova accountability digitale
Superare questa fase richiede un salto di qualità:
• standard comuni di risposta e tempi garantiti per le segnalazioni;
• trasparenza verificabile sui criteri di enforcement e sugli esiti delle rimozioni;
• report pubblici periodici sulle azioni intraprese e sui tassi di successo;
• cooperazione strutturata con i Trusted Flagger e gli organismi di tutela accreditati;
• integrazione di metriche di responsabilità nei parametri ESG e di compliance aziendale.
In prospettiva, la vera innovazione non sarà tecnologica ma governance-based: introdurre nella cultura delle piattaforme la consapevolezza che la tutela dei diritti non è un costo, ma un fattore di sostenibilità del digitale.
Conclusione – Oltre la policy, la coerenza
L’ecosistema digitale vive oggi una fase di maturità fragile: dispone di regole e strumenti evoluti, ma fatica a tradurli in comportamenti coerenti.
Finché la tutela dei diritti sarà trattata come un fastidio operativo o una minaccia ai ricavi, ogni policy resterà lettera morta.
La vera sfida, per le piattaforme come per i regolatori, è trasformare la coerenza in valore competitivo.
Perché nel digitale di oggi, la vera differenza non la fa chi ha le policy migliori, ma chi le applica davvero - anche quando non conviene.

